Il Bar dello Sport

VINCENZO SAMMARTANO – C’era una volta il Bar dello Sport. Quello dei 60 milioni di allenatori. Quello delle animate discussioni sugli arbitri. Dei rigori sempre a favore delle grandi. Una in particolare. Quello delle formazioni sbagliate. Perché tra i 60 milioni di allenatori, uno per ogni cittadino italiano, c’era sempre chi, quella partita l’avrebbe vinta.

C’era una volta il Bar dello Sport. Quello delle discussioni sulla politica. Sulle idee. Perché il Bar dello Sport non era solo calcio.

Il Bar dello Sport oggi è diventato social. Virtuale. Non ci si confronta più come si faceva una volta. Ci si scontra. Il confronto di per se implica una discussione, e da questa, anche la possibilità di un cambio di opinione. Ma cambiare opinione sui social equivale ad ammettere una sconfitta. Il cambio di opinione non è più contemplato nella discussione 2.0.

Lo scontro social diventa una moderna battaglia navale. Si punta ad affondare l’avversario a colpi di hashtag. Link dopo link. Fino all’ultimo colpo: l’emoji. Ovvero quelle buffe faccine che simulano lo stato d’animo degli utenti social.

Eppure neanche quelle faccine sono in grado di creare ponti nella discussione virtuale. Si generano invece posizioni estreme su cui arroccarsi e difendere la propria convinzione. Un vero peccato per come si è involuto il dibattito social(e). Nate per accorciare le distanze, le piattaforme social, le hanno di fatto ampliate, scavando profondi fossati tra chi la pensa diversamente. Così come accade tra i tifosi di calcio. Nessuno cambierà mai idea. Nessuno cambierà mai la squadra per cui tifa sin da bambino.

Ma sui social non si discute di solo calcio. Sui social ci si scontra su temi che richiederebbero studi e dibattiti approfonditi per capirne la morfologia e l’evoluzione: migrazioni, ambiente, lavoro, industria. Da dietro uno schermo di un PC o di uno smartphone, ci sono milioni di italiani pronti ad insultare e deridere chi la pensa diversamente. Ci sono milioni di italiani pronti a dispensare soluzioni semplicistiche veicolate tramite frasi contenenti anche meno di venti parole. Si è passati da 60 milioni di allenatori a 60 milioni di Ministri degli Interni, dei Trasporti, del Lavoro, della Sanità. E perché no. Anche qualche neofita premio nobel per l’economia.

Con i suoi tweets ed i suoi post, il Bar dello Sport virtuale ha esaltato la semplificazione. E peggio ancora, ha esaltato la semplificazione delle soluzioni. E’ un problema di leadership. E’ un problema di classe dirigente. Spesso arrogante ed impreparata. E non è un problema solo italiano. Brexit insegna. Ma questa è un’altra storia.

Cosi il Bar dello Sport virtuale è di fatto entrato nelle istituzioni locali, regionali e nazionali, portando con se i colori delle proprie squadre. Non ci sono più cittadini. Non ci sono più gli elettori. Ci sono supporter. A volte hooligans. C’è chi tifa per i gialli, chi tifa per i verdi, chi per i blu e chi per i rossi. I contenuti sono di secondaria importanza. Diventa importante vincere i confronti virtuali, attirando l’attenzione degli utenti . Il tutto per qualche pugno di “like” in più.

Ed invece bisognerebbe ritornare ad ascoltare, non per trovare la risposta ad effetto, ma per ricominciare a riflettere e dialogare, aprendosi a chi la pensa diversamente. Il confronto è necessario. Non solo tra i cittadini. Ma anche tra le forze politiche. Sia per chi siede in parlamento. Sia per chi siede in consiglio comunale.

Non ci resta che sperare in un confronto meno social e più sociale. Magari con l’aggiunta di quell’odore di caffè tipico del Bar dello Sport. Quello vero. Quello reale.

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