Mio fratello, il racconto inedito della vita di Peppino Impastato

DAVIDE LICARI – Giovedì 30 settembre, negli spazi concessi dal noto locale marsalese Morsi e Sorsi di Sicilia, in Piazza della Vittoria, si è svolta la presentazione del libro “Mio fratello”, di Giovanni Impastato. Una folla nutrita ha seguito con interesse e sentita partecipazione il racconto inedito della vita di Peppino, dell’infanzia con il fratello Giovanni, dal quale fu separato precocemente a causa di una presunta meningite contagiosa, al suo rapporto con gli zii che lo ospitarono per alcuni anni contribuendo in maniera fondamentale alla sua formazione culturale – letture e indirizzo politico che guardavano alla cultura della sinistra e del PCI -. Il racconto scorre piacevolmente grazie alla narrazione di Giovanni Impastato e il pubblico accompagna ogni intervento con un applauso spontaneo, la vita di Peppino e la sua formazione antimafiosa rappresentano ancora oggi un esempio per quei siciliani che non vogliono chinar la testa. Giovanni Impastato, sollecitato più volte dai moderatori della serata, Ignazio Passalacqua e Ottavio Navarra, ritorna spesso e volentieri a quel rapporto tra la famiglia di Peppino e il boss di Cinisi, Cesare Manzella, stretto parente di Peppino e Giovanni che spesso ospitò la loro famiglia nella propria tenuta di campagna, dove Peppino iniziò a notare alcuni aspetti di quella famiglia mafiosa che lo turbarono profondamente: gli inchini, le riverenze, i saluti, gesti meccanici riprodotti automaticamente in ossequio al codice mafioso. Ed è sempre in quella tenuta che si verificavano episodi curiosi per il giovane Peppino, ad esempio le ripetute sparizioni del padre e dei boss in coincidenza con le retate dei carabinieri, spesso anticipate alla famiglia mafiosa da qualche servitore dello stato infedele.

La narrazione procede sul binario della crescita di Peppino, in quella parte del racconto che narrativamente verrebbe considerata la formazione dell’eroe, ma Peppino eroe non voleva esserlo, tantomeno in quella terra che lo abbandonò lasciandolo solo contro una cultura mafiosa dominante e oppressiva. E così si giunge al momento della presa di coscienza di Peppino, al boato assordante e all’odore della dinamite mescolato a quello degli alberi bruciati, la strage mafiosa nella quale persero la vita Cesare Manzella, un suo servitore e il cane del boss. Giovanni racconta con forte emozione che fu proprio quello il momento nel quale Peppino scelse da che parte stare, che avrebbe lottato per tutta la vita contro la mafia assassina e senza scrupoli, che avrebbe denunciato le ingiustizie del potere in quanto militante comunista, prima nelle file del PCI e successivamente nella galassia extraparlamentare, e come antimafioso e ambientalista, uno dei primi in Italia. Fondamentale fu l’incontro con Danilo Dolci, il quale contribuì alla sua formazione nei movimenti, all’apertura della coscienza di Peppino ad altri temi che oltrepassano quello sacro per un comunista, la lotta di classe, ovvero la tutela dell’ambiente, la condizione femminile, l’abuso di sostanze stupefacenti. Peppino comprese che queste lotte erano tutte interconnesse, che la disobbedienza civile doveva essere posta al servizio della trasversalità di quelle singole lotte che potevano essere collegate in relazione tra loro, e la lotta alla mafia rappresentava il modo più efficace per togliere la maschera ad una comunità che presentava tutti i caratteri contrastati dai movimenti dell’epoca: la profonda sudditanza morale e culturale, l’omertà, l’oppressione mafiosa e patriarcale, l’intolleranza nei confronti del diverso, la cementificazione sfrenata a danno della bellezza della natura.
Il racconto di Peppino, della sua infanzia, della sua crescita, della sua memoria, si chiude con il parallelismo con una giovane attivista che come Peppino qualche anno fa si recava sotto i palazzi del potere per denunciare i potenti, l’attivista per l’ambiente Greta Thunberg, e con quei casi di disobbedienza civile che riscrissero il concetto di legalità, a partire da Rosa Parks, la donna afroamericana che negli anni ’50 venne picchiata e scaraventata giù da un autobus per non avere ceduto il posto ad un uomo dalla pelle bianca, un esempio di coraggio che negli Stati Uniti diede vita al movimento per i diritti degli afroamericani dal quale sarebbe emerso un grande leader della lotta per i diritti, Martin Luther King.
Un parallelismo che non appare azzardato: Peppino in fin dei conti era un militante non violento – si rifiutò persino di acquistare un’arma da fuoco per difesa personale -, era impegnato nelle battaglie per i diritti e dalla sua morte prese il via un movimento che vent’anni dopo l’assassinio, grazie alla riabilitazione della figura di Peppino Impastato, non più considerato attentatore stragista bensì vittima della furia omicida della mafia, ritrovò maggiore vigore e ancor oggi numerose delegazioni di giovani e meno giovani frequentemente si recano a Cinisi per visitare Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato, in particolare nella data che rievoca la sua uccisione, il 9 maggio.

 

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